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25 gamStiamo salendo, il Direttur (Claudi Battezzati) ed io, una nuova via sulla Rocca Castello.
Sulla destra vedo delle placche intonse, mentre è partito dal primo spit, solletico la curiosità del Direttur.
“A sinistra si potrebbe tirare una linea, mi sembra che non sia impossibile, il problema è in alto, quando si devono superare i grandi tetti, da sotto diventa difficile immaginare dove passare”
Gliel’ho buttata lì, vediamo se abbocca!!!

Al terzo spit il Direttur si gira verso di me e, con fare perentorio, recita il verbo:
“ Se si passasse, sarebbero già passati, diversamente ci sarebbe una via di Ugo Manera e Giampiero Motti da andare a rimettere a posto. Ne ho parlato a Ugo e lui sarebbe più che contento. Una via di Giampiero Motti / Ugo Manera, è per forza una garanzia di bellezza e impegno”
Muto e rassegnato, continuo ad assicurare.
Alla sera vado a leggere un vecchio articolo di Ugo Manera che raccontava la genesi del Gruppo GAM (Gruppo Alta Montagna), i concetti che sono alla base della nascita del gruppo mi piacciono e mi sento profondamente solidale: il gruppo ha una fisionomia proletaria (da quanto tempo non sento più questa parola che solo 30 anni fa era sulla bocca di tutti!!!), tenta di aiutare gli alpinisti meno abbienti a trovare risorse economiche per loro salite, li mette in contatto tra di loro e tanto altro ancora.

Tra i presidenti del GAM ci sono alpinisti come Giampiero Mott e Guido Rossa, alpinisti che hanno lasciato un segno non solo sulle pareti che hanno scalato, ma anche nell’anima di chi ha letto i loro testi o condiviso la loro visione politica.
La pausa di ferragosto è terminata, sono di nuovo a casa e non c’è santo che tenga, si parte per la Val Maira.
Porca puzzola, sto zaino è improponibile per la mia schiena. Tra trapano, punte, spit, chiodi, catene per le soste, corde fisse e tutto il resto dell’armentario…saranno almeno 40 Kg da portare su dal sentiero in una giornata dal caldo sahariano.
Il Direttur non è da meno, lui porta il materiale per arrampicare e infatti la salita del sentiero avviene in un religioso silenzio, neanche il fiato per dire una sillaba, solo il nostro respiro affannoso e la fronte grondante di sudore.
Arriviamo sotto la Punta Figari, ci piazziamo sopra una piccola terrazza, molliamo il peso mostruoso e cominciamo a scandagliare la parete alla ricerca della fessura e dei chiodi menzionati nella guida di Giova (Giovannino Massari).
Di chiodi manco a parlarne, in compenso una fessura/canale, oramai intasata all’inverosimile da erbacce e alberelli, l’abbiamo trovata.
Anche in queste occasioni ti rendi conto di quanto siano cambiate le condizioni climatiche, 50 anni fa qui c’erano almeno 10 gradi di meno in questa stagione e la fessura non era sicuramente il terrazzamento di una mini foresta amazzonica!!! Ma il tempo cambia è ora ci puppiamo questo.

Il Direttur parte…. Dopo qualche metro si blocca e vedo che comincia un’azione di aggiramento di un grosso masso verticale, una sorta di menhir incassato tra arbusti e vegetazione varia.
“Spostai da una parte che lo tiro giù”.
“ Kaiser!!!,,,quello è un frigo…dovrei spostarmi sul sentiero per stare tranquillo”
“Ma va là… vedrai che scivola giù tranquillo, è bello affusolato, la fessura gli fa da toboga”
Toboga un paio di ciuffoli!!!

RELAZIONE PUNTA FIGARI – VIA VENTICINQUENNIO G.A.M.

Il menhir fionda giù alla velocità di un Italo sulla tratta Torino – Milano, passa a due metri da me che intanto mi ero fatto piccolo, piccolo in una rientranza della parete e recitavo le mie solite preghiere da ex chierichetto.
Cominciamo bene!….. Se dobbiamo disgaggiare tutta la fessura, non ci basta una settimana.
Piccolo briefing tra il Direttur appeso a tre friend poco raccomandabili e il sottoscritto, ancora tremante, a fare sicura.
Si prende una decisione all’unanimità: piazziamo un paio di spit sulla placca a destra della fessura e usiamo la fessura solo per i piedi al fine di non caricare troppo i massi che si sono incastrati dentro. Si procede più tranquilli, ma sempre con le orecchie dritte!!

Il Direttur arriva sotto il primo tetto; la via, un chiodo sta ad indicarcelo, gira a sinistra facendo un ampio arco per poi andare di nuovo in linea retta alla prima sosta.
Sosta di quelle di una volta: chiodino a lama, tagliente come un bisturi e cuneo di legno oramai marcio, ma ancora prezioso per confermarci che siamo sulla linea giusta.
Altro breve confronto tra di noi e spezziamo il tiro in due, così le corde non tirano e si arrampica più fluidi e con un bello stile.
Adesso tocca a me.
So della durezza della quarzite, sia Ciano (Luciano Orsi) sia Giova mi avevano debitamente informato che avrei trovata una roccia durissima.
Vabbè, però qui superiamo l’immaginabile: una punta riesce a fare al massimo tre fori!!!
Finirò prima le punte degli spit!!!!

Bene siamo arrivati alla seconda sosta e non ho più una punta che fori dignitosamente, e a peggiorare la situazione, ho il braccio che trapana che è frullato dalle vibrazioni che la parete mi restituisce.
Tra me e la roccia della Figari è iniziata una lotta senza quartiere, ma è una lotta impari; sono già bello che cotto!!
Se non avessi liso tutte le punte, avrei cimito il braccio.

Tempo una settimana e siamo di nuovo alla terrazza.
Stavolta veniamo giù dal colle Gregouri, pensando di faticare di meno, effettivamente facciamo meno strada erta, ma il peso dello zaino è sempre troppo…e oggi ci stanno pure le Jumar.
Ci attrezziamo alla solita maniera e comincia la risalita con maniglie Jumar.
Saranno almeno 10 anni che non risalgo una parete così alta con le Jumar, però conservo un bel ricordo di tutto quel pompare su è giù.
Il Direttur sale con la velocità di un Bradipo azzoppato, penso che dovrei fare di meglio
Pensato male, molto male!!!…. salgo con la velocità di un bradipo azzoppato a tutti e quattro gli arti!!!
Non ricordavo che salire una fissa fosse così faticoso, soprattutto così demoralizzante da un punto di vista psichico…. Sei sempre nel vuoto con lo sguardo rivolto a dove arrivare, senza arrivare mai.
Alla fine, siamo alla seconda sosta e ripartiamo, obiettivo di oggi e arrivare alla grande scaglia e possibilmente piazzare la sosta per la partenza nella fessura diedro, che viene descritta alquanto ostica, al termine della quale dovremmo arrivare alla grande placca e alla fessura che parte dalla sosta vicino all’albero.
Gran bella cosa i programmi, difficile rispettarli!

Si parte, il Direttur propone un traverso su una placca articolata dove piazza un nut che pare creato per quello scopo tanto si posiziona bene nella fessura a V.
Poi si allontana dal nut e comincia la risalita in direzione verticale. Non pare difficile solo che le corde strozzano troppo l’angolo di salita e sento recitare le solite litanie del Santo Rosario.
“Dai che metto una sosta facoltativa e così le corde vengono meglio sia a salire da primo sia a recuperare il secondo”.
Lo dico e lo faccio, ma già al terzo foro sento di nuovo male al braccio.
La Figari, come Tutankhamon, lancia le sue maledizioni.
Saliamo lenti, ma saliamo, ogni tanto troviamo, molto, molto di rado, un chiodo messo in un modo tale che faccio fatica a capire come abbiano potuto conficcarlo in quel modo.
Claudio mi racconta che Ugo era, nel mettere chiodi, uno dei massimi esperti dell’epoca; e per gli allievi dei Corsi della Gerva, direi che, ancora oggi, è in zona medaglia.
Comunque saliamo, saliamo lenti, ma saliamo.

Mentre saliamo posiziono la corda fissa che dovrà garantirci la risalita la prossima volta.
Certo che oggi, per salire 120 metri siamo quasi andati in coma ipoglicemico, dobbiamo trovare una soluzione alternativa per arrivare all’ultima sosta che piazzeremo oggi.
In settimana vedrò Giova per un progetto a cui stiamo lavorando e gli chiederò il modo meno faticoso di arrivare in cima alla Figari per poi calarsi.
Presto detto e fatto, Giova mi indica la strada maestra:
“Salite il Camino Est (quello delle doppie), arrivate alla cengia superiore da dove poi parte la Castiglioni, ma voi andate a sinistra a prendere la cresta della Figari. Da lì parte una cengia/canale che taglia in tutta la sua lunghezza la cresta e arriva in cima”.
Due settimane dopo eccoci in modalità “attacco alla Figari”, il Direttur in tenuta da Big Wall, io carico come il mulo Francis che trascino l’attrezzatura per chiodare almeno 5/6 tiri. Iniziamo il camino che sembra essere il capolinea di tutti i massi che sono rotolati giù nell’ultimo millennio, troviamo la cengia/canale su cui sono infissi ben 3 chiodi dalla ciclopica tenuta e arriviamo alla punta massima della Figari; li troviamo una sosta nuova con relativa catena sia per scendere sul versante est che ovest
Sotto la sosta, della parete est, una via a spit che non riconosciamo, ma una decina di metri più sotto ecco una bella, (perché così ci appare, tanto l’abbiamo invocata nelle nostre chiacchiere in salita) ma vecchia sosta a cordoni marci e fettucce vetuste.

Ci piombo sopra con tutta l’attrezzatura da cantiere, metto in modalità attiva Efisio (oramai non è più il trapano, l’ho talmente portato su e giù tante volte che è diventato un socio della cordata!), e piazzo l’ultima sosta della rivisitazione.
Da lì dovremo calarci sino a trovare l’ultima sosta piazzata nei giorni scorsi per poi risalire sino qui.
Il Direttur si cala per il viaggio premio, composto da vari pendoli a destra e a sinistra della direttiva di calata per trovare la direzione della via; punto di riferimento l’unico pino mugo della parete che Motti e Manera, avevano utilizzato come sosta e dove anche noi abbiamo attrezzato l’ultima sosta.
Lezione di oggi: le pareti viste dall’alto sono una cosa, le pareti viste dal basso sono un’altra!!
Del pino mugo manco l’ombra!! E dire che non penso ce l’abbiano fregato o che il caldo torrido degli ultimi giorni l’abbia fatto seccare!!
Alla fine, lo vede, spostato molto, molto più a destra di quello che pensavamo.
Decidiamo che per arrivarci è necessaria fare una sosta e poi da quella calarsi per arrivare alla fine della fessura dell’albero e poi iniziare il tiro dello strapiombo
Fatta la sosta ci accorgiamo di avere, sopra di noi, una bellissima placca incisa da una grande fessura che con qualche spit, potrebbe essere una bellissima uscita della via (l’originale passa a destra del grande diedro finale ma c’è troppa “roba mobile” a vederla scendendo)
Cercando di bruciare sul tempo il Direttur, in un lampo sono pronto per partire.
Tutto questo movimento non passa inosservato
“Sei già pronto per partire? Non toccava a me questo tiro?”
Gli porgo le corde per la sicura, sfodero il più conciliante dei sorrisi e gli ricordo che dobbiamo affrettarci perché il temporale potrebbe arrivare da un momento all’altro e le LEFFE ci aspettano a Prazzo.
Detto fatto, parto e girandomi indietro per vedere quanta “aria” ho messo dalla sosta al primo spit, vedo il Direttur che scruta il cielo alla ricerca di almeno un cirrocumulo temporalesco…nulla il cielo è vergine!
Mamma mia che tiro!.

Un susseguirsi di appigli su una placca fantastica che in qualche porzione riesce ad accogliere anche qualche friend di grossa taglia, poi un bel cordone su un lamone grande e grosso, 4 spit e sono alla sosta. Mi faccio calare.
Arrivo alla sosta con aria felice, il Direttur mi guarda con aria bonaria:
“questo ti costa almeno due birre!”
“anche tre…ne valeva la pena”.
Adesso tocca calarci alla sosta del pino mugo, ma ci sembra un azzardo, non vediamo le fessure su cui sono saliti Motti e Manera e pertanto non riusciamo a individuare una linea decente di salita.
Si decide di calarsi nell’ignoto, di materiale per fare delle soste, anche in più di quelle previste, ne abbiamo e pertanto, alla terrazza di partenza, in qualche modo ci arriviamo.
Il Direttur si fa calare su quella che molto probabilmente, dovrebbe essere l’uscita dell’ultimo tetto, ma non ci scommette le due birre appena vinte al sottoscritto.
Avrebbe vinto!
Il tetto ha una fessura articolata e di buone prese per le mani che, passando sotto la pancia del tetto e poi girando alla destra (orografica) dello stesso, arriva al fessurone dove dovrebbe esserci l’altra vecchia sosta.
Chapeau!!! Grande tiro e grande pelo!.
L’avranno pur “binocolata” s, ma pensare di trovare una fessura diagonale che ti permette di superare il grande tetto strapiombante, la dice lunga sull’esperienza e le capacità dei due personaggi.
Si vedono ancora i chiodi martellati a dovere in una fessura che farebbe la gioia di un geologo tante sono le concrezioni di altre rocce diversa dalla nostra quarzite.
Purtroppo, la grande fessura per arrivare a questo punto non si vedeva perché oramai è diventata una “selva oscura” in cui è impossibile mettere mano, pena vederla riemergere come un punta spilli e dove sono albergati massi grandi come cocomeri pronti a far sentire il loro urlo mentre rimbalzano giù dalla parete.
Decidiamo per un’altra rivisitazione, prendendo per dritto dalla fessura finale del pino mugo sino a qua.
Bene cominciamo con il nuovo maquillage di questo tiro, che a fine lavori diventa perfetto e in linea con il resto della via.
Ora ci aspetta il tiro della fessura del pino mugo e poi da quella sosta il tiro rivisitato che permette di evitare la fessura della “selva oscura”.
Decidiamo anche di non usare la nuova sosta del pino mugo, oltre a raddrizzare la via., eviteremo di mettere in pericolo il pino mugo dai continui calpestii degli alpinisti che potrebbero rovinarlo.
Si impone un’altra rivisitazione: dalla nuova sosta che non tocca più quelle del pino mugo, dobbiamo arrivare alla sosta sotto lo strapiombo.
Si va dritti. Non è facile di certo ma alla fine scopriamo (e puliamo!!!) almeno due punti dove mettere dei friend che aggiunti agli gli spit messi su un muro perfetto, ci regalano un tiro di 15 metri da braccino bionico.
Bene siamo arrivati all’ultimo round.
La fessura del pino mugo è piena di vegetazione, ma è stretta e pertanto possibile pulirla un poco e renderla arrampicabile.
Ok finito.

Adesso giù di doppie, in tutto sono 4 e tutte di “carattere”, obbligatorio avere le corde da 60 metri e un nodo di sicurezza ben fatto che, dopo la prima calata, si prende velocità.
Nel fine settimana vediamo Ugo al raduno di Sea dove la Gerva ha organizzato il corso Trad.
Lo aggiorniamo sulla via, gli confermiamo che sono stati proprio bravi a trovare il modo di passare su una parete così difficile, inoltre ci facciamo spiegare come hanno fatto a mettere dei chiodi in posti cosi impossibili.
Ugo sorride, risponde che all’epoca bisognava arrangiarsi con quello che si aveva e che a forza di martellare centinaia di chiodi, l’arte di chiodare dovevi impararla per forza.
Poi i chiodi si levavano, ma a Motti piaceva lasciarne qualcuno, ci fosse stato Meneghin
“Non ne avreste trovato neanche uno!”
Lo ragguagliamo anche sul fatto che abbiamo rivisitato la linea perché alcune fessure erano impossibili da liberare dalla vegetazione e degli arbusti.
Ugo prende atto e comincia a raccontarci qualche vecchio ricordo sulla via.
L’autunno arriva e anche la nebbia, le nuvole e la pioggia, ma alla fine becchiamo un sabato di bel tempo e risaliamo la valle per l’ennesima volta.
Arrampichiamo sulla via, per la prima volta, leggeri come non mai; l’obiettivo è scalarla tutta insieme, aggiornare la relazione e vedere se tutto fila via come dovrebbe.
I tiri passano lenti, un po’ per tentare la libera un po’ perché ci guardiamo intorno in una bellissima giornata di inizio autunno.
Lo spigolo Castiglioni è davanti a noi, la giudico la più bella via del gruppo Provenzale/Castello e anche una tra le più belle del nostro territorio.
E’ ora di calarsi, le giornate si fanno più corte e non abbiamo voglia di scendere con il buio anche se oramai conosciamo a memoria le doppie, meglio non rischiare.
A Chiappera ci fermiamo per una birra.

Il Direttur sorseggia e comincia a intonarmela di un’altra via da fare e poi di un’altra ancora che andrebbe bene per la scuola ma dovrebbe essere richiodata (questa volta vediamo di affittare un mulo, ho ancora la schiena dolorante!!!)
Ordino un altro giro di patatine e di birra, lo ascolto e comincio a pensare a come faremo a portare a casa tutti questi progetti e gli altri su cui fantastico in proprio.
Il tempo passa troppo veloce da una certa età in poi, e mi ritrovo a progettare mille cose come se avessi chissà quanto tempo a disposizione, senza rendermi conto che sono più vicino alla stazione di arrivo che a quella di partenza.
Bevo la mia birra e guardo fuori la parete, da qui si vede solo la Provenzale, ma la punta della Figari si intravede tra le ombre della sera.
Mi vengono in mente le parole di una canzone di Ligabue: “…che ho imparato a sognare non smetterò”.

Gian Piero Porcheddu (GPP).

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