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Ci sono dei semplici pennacchi di roccia che custodiscono anni ed anni di storia, storia dell’arrampicata cuneese, cominciata quando ancora non esistevano televisione e corde performanti da 9,2mm.

La falesia dei Distretti di Miroglio in Valle Maudagna è uno di questi tesori nascosti. Raccontata magicamente da Giovannino Massari vi presentiamo “Miroglio: una storia comune“.

 

Miroglio: un complesso di strutture quarzitiche dove ho iniziato a muovere i primi passi sulla roccia e di cui conosco ogni singolo appiglio; non un centro importante ma un piccolo sito con una grande storia di oltre settant’anni scritta dalle centinaia di persone che lo hanno frequentato e continuano a farlo con passione e sempre con un briciolo di ricerca. Fin dalla fine degli anni ‘40 i torrioni dei Distretti di Miroglio fungono da “palestra di arrampicamento” per alpinisti affermati, neofiti e corsi di alpinismo. E’ stata, nel cuneese, grazie all’ottima qualità della roccia e alla sua conformazione particolarmente articolata in torrioni spesso di facile lettura ma anche dotati di sezioni lisce e impegnative, la palestra di tutti coloro che praticavano l’alpinismo regolarmente a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’80; sia di chi cercava un po’ di difficoltà, spesso concentrata in tratti brevi e impegnativi, sia di chi voleva simulare un impegno “alpinistico”, concatenando creste e torrioni. Vi ho trascorso innumerevoli giornate dal 1980 a oggi scalando prevalentemente da solo o con i miei compagni di allora: Federico Bausone, Stefano Antibo, Renato Simondi, GianPiero Turco, Raffaele Trombin, Diego Gallo, Virgilio Chionetti, Fulvio Sclavo, il ligure Andrea Parodi e i goliardici amici del CRIC di Ceva con cui ci ritrovavamo generalmente il sabato pomeriggio per salire slegati i vari torrioni. Ma torniamo alla nostra storia…

I primi ad arrampicare qui a Miroglio furono, verso la fine degli anni ‘40, (epoca in cui fu aperta la strada per Artesina) i forti alpinisti monregalesi dell’epoca tra cui l’accademico Sandro Comino, classe 1900, l’elegantissimo Piero Billò, Arnaldo Colombatto, Nando Bruno, Franco Gallo, Pino Mantero, Piero Mattalia e altri che già a quei tempi, con scarponi rigidi martello e chiodi, corde di canapa e rigidamente “dal basso”, superarono le “normali” della maggior parte dei torrioni e si spinsero in arrampicata libera ed artificiale su itinerari più audaci; sono di questo periodo, tra le altre, la “Diretta Nord” al Torrione B, la “Via dei Diedri” al Torrione C e le prime vie dei Torrioni D, F, G. Dopo un relativo ma del tutto naturale periodo di stasi nelle aperture di nuovi itinerari nel quale, però, il CAI Mondovì, sotto la spinta delle idee di Piero Billò e di Arnaldo Colombatto, organizza un primo corso di roccia, nel 1963. Il corso inizia in sordina ma cresce negli anni fino a raggiungere alla fine degli anni ’60 una frequenza costante di una trentina di allievi per anno raccolti presso tutte le sezioni CAI del monregalese e dintorni ma anche presso le sezioni liguri; vale la pena ricordare che i corsi si tenevano anche nella struttura rocciosa della palestra di Miroglio, ora in disuso, posta immediatamente prima dell’abitato omonimo, sulla destra orografica della valle, dove già si tenne, subito dopo la guerra un primissimo corso di roccia, diretto da Sandro Comino, sotto l’egida della società sportiva “Aurora”. All’inizio degli anni ’70 la palestra dei Distretti di Miroglio prende comunque il sopravvento sulle altre strutture rocciose e diventa la “Palestra” ufficiale del CAI Mondovì che pubblica una piccola guida ciclostilata del sito dove si dedica la palestra di arrampicata a Beppino Avagnina, giovane prematuramente scomparso, e, sul luogo, proprio grazie al contributo della famiglia Avagnina, viene costruita una piccola casetta-rifugio, in appoggio alle strutture rocciose, con relativa sistemazione dei sentieri d’accesso ai settori e nel 1973 si giunge ad una vera e propria inaugurazione. E’ proprio da questi anni che, con l’arrivo delle nuove leve, prodotte proprio dai primi corsi di roccia e dai fermenti giovanili dell’epoca traslati nell’alpinismo(G.Comino con i suoi amici Aldo Pizzo e Francesco Tissino, i monregalesi Giorgio Mongardi, Sergio Rossi, futuro ghiacciatore estremo e autore di numerose prime, Pucci Giusta, Enzo Cordero, Andrea Motta, Massimo Voarino, Amilcare Gallo, Gino Ghiazza, Stefano Meineri, Stefano Avagnina, Gian Piero Bonelli, Dino Murazzano, Franco Botto, Guido Colombo, Stefano Garelli, Carlo Cavarero e un gruppo di chiusani “capitanato” da Gian Franco Bertolotto) che si assiste nuovamente ad una ricerca della difficoltà e di nuovi itinerari ma sempre con metodi tradizionali e senza l’ausilio dello spit e a una conseguente fervida attività sulle pareti alpine, soprattutto Liguri e Marittime. Da questi germogli cresce una nuova pianta e, proprio nel 1973, nasce il GAM (Gruppo Alpinistico Marguareis) che darà nuovo lustro all’alpinismo locale di quegli anni. Gian Franco Bertolotto, classe 1949, alpinista e scrittore, descrive così l’epopea di allora: ”Miroglio mi è rimasto nel cuore, perché, proprio qui, è iniziata la mia avventura di alpinista. Ed è stato certo un buon inizio se, alla vigilia del mio sessantacinquesimo compleanno, ho ancora ripetuto la via di Armando Aste alla Tino Prato, che non è proprio un monotiro di falesia! Era la fine degli anni ’60 quando frequentai il mio primo corso di roccia, organizzato dalla sezione CAI di Mondovi’.

Si trattava per me di un’occasione imperdibile: l’unico modo per realizzare concretamente il mio sogno di scalare, cominciando dal Marguareis, la montagna simbolo della Valle Pesio. Ricordi ancora nitidi mi riportano alla mente le emozioni, l’ambiente, i protagonisti del mio primo approccio con l’arrampicata. A quei tempi, corde, moschettoni e chiodi pesavano quintali; si arrampicava con scarponi rigidi e si faceva sicurezza a spalla(per non parlare di pantaloni alla zuava e camicie scozzesi!). Il corso di roccia si teneva nel “tempio” dell’arrampicata monregalese, ossia sui picchi rocciosi di Miroglio e dei Distretti. Anticipando il futuro, i bravi alpinisti monregalesi avevano già compreso l’importanza della “falesia”, per una buona preparazione ai più seri impegni di alpinismo, anche se, ovviamente, non esisteva ancora la cultura dell’arrampicata sportiva fine a se stessa. Il primo dei miei istruttori fu il “maestro” Toni Magliano. E maestro Antonio lo era veramente, perché insegnava nella scuola elementare di Vicoforte. La sua perizia didattica si estendeva anche all’arrampicata: spiegava accuratamente l’uso migliore di appigli e appoggi, le posizioni di equilibrio, i movimenti più adatti alla progressione. Era anche molto paziente e comprensivo verso i “bocia” come me, che si accostavano alla roccia in modo alquanto rozzo e primitivo. Su tutto e su tutti troneggiava la personalità di Piero Billò, alpinista di fama e grande stilista. La sua calma imperturbabile era una sorta di mito. Sapeva insegnare, consigliare e, talvolta, rimproverare gli imprudenti senza mai alzare la voce. Lezioni e pratica di scalata assorbivano tutto il tempo della domenica, e trascorrevano in un sereno ambiente familiare, dove nessun “primo della classe” intendeva sfoggiare il suo talento a dispetto dei meno bravi. Però un vero talento c’era in quel gruppo, e non fra gli istruttori, ma fra gli allievi: si trattava di Gianni Comino, futuro alpinista estremo. Del folto gruppo di allievi ed istruttori conoscevo già Stefano Meineri, con il quale avevo condiviso, poco più che adolescente, una impressionante salita del Canalone dei Genovesi, portata a termine senza la minima attrezzatura. Inoltre feci amicizia, proprio allora, con Gianni(Comino n.d.r.)che era allora un ragazzetto secco e occhialuto ma che dimostrava già una passione e un talento per l’arrampicata che lo ponevano un gradino al disopra di tutti gli altri. In virtù di una strana selezione naturale, all’interno del gruppo di partecipanti al Corso si cristallizzò un insieme ristretto di appassionati che voleva di più e coltivava progetti ambiziosi. I nostri istruttori capirono e lasciarono fare, consci che da quella passione focosa poteva scaturire nuova linfa alpinistica per il sodalizio monregalese. Da quel momento in poi, cominciammo ad affrontare salite di roccia che erano abbastanza temute e non avevano attirato nessuno dei rocciatori del CAI di Mondovì. In effetti, trasportati dalla nostra passione sfegatata e dall’audacia giovanile, l’ambiente della sezione ci appariva un po’ troppo “ingessato” e poco propenso a un’attività alpinistica impegnativa. Dalle interminabili discussioni del Venerdì sera in sede nacque così il “Gruppo Alpinistico Marguareis” o GAM che raccoglieva intorno a sé tutti i ragazzi che volevano salire di un gradino nel livello alpinistico. Le punte di diamante del Gruppo furono proprio Meineri, il più serio e maturo, e Gianni, il più dotato e il vero trascinatore. Da allora ogni venerdì sera estivo si teneva un vero e proprio consiglio di guerra: si leggevano relazioni, si discuteva, si programmavano scalate. E in breve tempo affrontammo e portammo a termine alcune prestigiose vie del Corno Stella, dell’Argentera e della Rocca Castello. Poi i nostri destini si divisero: lo studio, il lavoro, la famiglia. Gianni, da grande campione qual era, entrò nel firmamento dell’alpinismo glaciale fino alla sua tragica scomparsa. Io mi legai in cordata con tanti altri compagni, in un’attività senza termine”. E’ così che nascono, negli anni ’70 a Miroglio, lo spigolo Meineri (S.Meineri&C.) al Torrione E o la fessura di Oberon al Torrione A(G.Comino&C.)e molte varianti, salite con qualche primitivo “nuts”, vedono la luce. E’ di questo periodo l’inizio della moda di percorrere slegati le “normali” dei vari torrioni in salita e discesa e della ricerca di brevi e difficili passaggi da usare come allenamento sulle paretine più brevi o sugli affioramenti alla base dei torrioni da parte dei già citati Comino e Tissino; sono complici di questa tendenza l’inizio dell’uso delle scarpette a suola liscia e della magnesite che rivoluzioneranno un po’ ovunque l’arrampicata che però, fino questo momento, non è un’attività fine a se stessa ma sempre mezzo per imprese alpinistiche ritenute di maggior prestigio. Ho scalato personalmente con Checco Tissino: era indiscutibilmente dotato di una prodigiosa forza naturale e di una visione dell’arrampicata già orientata verso l’arrampicata libera.

Si materializza a Miroglio, lasciandovi un segno indelebile, anche il famoso Gian Carlo Grassi, autore dell’omonimo passaggio sul Torrione F; una sezione rocciosa destinata a diventare in seguito una tappa obbligata di per tutti i frequentatori del sito. Dopo che scema il gruppo GAM coagulatosi soprattutto attorno alla figura di Gianni Comino, destinato al grande alpinismo con Gian Carlo Grassi e caduto sul seracco della Poire nel febbraio 1980, raccolgono il testimone della ricerca qui a Miroglio, i fossanesi Igor Napoli, Carlo Bergese e Elio Panero (i “Sassisti della Maudagna Valley”) che, introducendo sistematicamente l’uso della magnesite, intensificano la ricerca delle difficoltà sui massi tracciando addirittura un circuito e contribuiscono a quel fenomeno che si è manifestato in quegli anni un po’ ovunque in Italia, complice la nuova visione che comporta l’arrampicata libera: le rocce di Miroglio da terreno di allenamento per future salite acquistano una loro dignità e da mezzo diventano teatro ultimo di prestazione e ricerca. Come nacque il passaggio Grassi e come mutò gradualmente la visione lo racconta Carlo, ”Charlie”, Bergese, classe 1959, storico climber della Granda: ”Durante un corso di roccia del CAI di Fossano, nell’autunno del 1979, in cui mi trovavo in veste di istruttore al seguito di G.Comino che ne era il direttore e in compagnia di Rio Celso e Gian Carlo Grassi, capitammo, dopo aver salito un discreto numero di torrioni con gli allievi, alla base del Torrione F, che presentava alla sua base una difficile sezione ancora irrisolta. Gian Carlo, che già aveva sperimentato il bouldering in val Susa, prova ripetutamente la placca liscia e poi, trovata la sequenza, una serie di prese in diagonale verso destra, riesce a risolvere “il passaggio” emulato in breve da Gianni e da Rio. Io provo e riprovo ma solo dopo alcuni mesi di tentativi e grazie anche a una suola speciale, la mitica “Airlite” in voga in quel periodo, riesco, per primo, a ripeterlo; di lì in poi, per me e per i miei compagni, si aprì un mondo nuovo fatto certamente di ricerca di passaggi impegnativi ma anche del piacere del movimento fine a se stesso e così, in breve tempo, nacque anche l’idea di esplorare l’area alla ricerca dei massi più interessanti. Arrampicare a Miroglio, in definitiva, diede i suoi frutti se penso che mi consentì, dopo aver girovagato per anni sui suoi torrioni alla ricerca di me stesso e dei miei limiti, di salire in free solo, nel 1981, la classica Dufranc – Campia al Corno Stella”. Un altro “climber” della zona, attivissimo in quel periodo è Aurelio Borgna, chiusano, classe 1954, che così ci rende partecipi delle sue arrampicate a Miroglio: “Ricordo ancora le prime esperienze di arrampicata con corda, chiodi, martello moschettoni e scarpe da ginnastica proprio a Miroglio con Aldo Caraglio. Era un misto di gioia e tensione, con un tourbillon di emozioni contrastanti tra l’eroismo (il mio libro di riferimento era “le mie montagne” di Bonatti)e l’attesa del peggio. E quando riponevamo il materiale nello zaino tiravo un sospiro di sollievo: anche per quella volta non mi ero fatto male… A seguito del militare, che mi ha offerto l’opportunità di arrampicare con una certa regolarità, Miroglio è diventata la “palestra” di riferimento dove preparare le scalate del fine settimana. Già perchè allora scalare in palestra serviva da preparazione per i veri cimenti che erano le odierne multipich. In compagnia, ma più spesso da solo, ho imparato a valutare le cose con attenzione e a gestire la paura, che comunque provavo, nel muovermi senza corda. La mia percezione aumentava, i colori, i profumi del bosco e della roccia entravano in me e ne incorniciavano i movimenti. Poi, un brutto giorno, a metà degli anni ‘80, compaiono sui torrioni pennellate di vernice bianca fatte da un gruppo di militari in occasione di una serie di esercitazioni: tanti tratteggi che dalla base arrivavano in cima ai vari torrioni, una ferita non facile da guarire… Poi, in vista dei mondiali di calcio del 1990 in Italia, quelle rocce sono entrate a far parte del video illustrativo della provincia di Cuneo che ha ospitato la nazionale costaricana. In quel video arrampico su alcuni torrioni e, una volta sceso, mi allontano mano nella mano con una modella danese che, ad una mia domanda se avesse mai arrampicato mi guarda con pietà e mi fa notare che in Danimarca di pareti proprio non c’è traccia…Intanto l’arrampicata si differenzia e la falesia vive di vita propria slegandosi dalla preparazione ai cimenti in montagna. Ma anche oggi, a mio avviso, si assiste ad una mancanza di rispetto sia dell’ambiente che di coloro che amano sperimentarsi sulla roccia: gli appigli vengono segnati con un tratto di magnesite, altro non è che cercare di riportare sulla roccia l’arrampicata sulle prese di resina svilendone un tratto caratteristico fatto di invenzione e ricerca del movimento più idoneo”. Intorno alla metà degli anni ’70, il periodo d’oro del del gruppo GAM, è protagonista dell’esplorazione delle rocce intorno a Miroglio Pucci Giusta, classe 1954, guida alpina e storico aderente al GAM che racconta quei momenti con un significativo articolo apparso sulla rivista del CAI Mondovi “L’alpinista” nel 1979: “Parecchie volte, trovandoci ad arrampicare nel1a palestra dei Distretti e osservando i1 gruppo di torrioni posti sulla destra orografica della va1le, ci colpì la vista di un enorme diedro che pareva di circa 40 metri: “Dobbiamo andarlo a fare” si diceva, ma poi, ponendo 1’attenzione sul percorso di avvicinamento si preferiva semplicemente ripiegare sulla vecchia palestra dalla breve e facile via d’accesso. Circa un mese fa, stufo delle solite arrampicate, partii da solo per ”fare quel diedro”. L’avvicinamento fu uno schianto infatti non essendoci alcun sentiero nel basso sottobosco, le graffiature delle ”runse”(piemontese:rovi) e le frustate dei rami sulle mani e la paura delle vipere mi scoraggiarono un po’. Raggiunsi iI diedro e provai a salire, poi, giunto a metà senza corda e chiodi preferii ripiegare e dare un’occhiata ai torrioni vicini. Fui stupefatto dalle pareti e fessure che vidi: tanto che i1 giorno successivo tornai con un compagno e giocammo ad esplorare ulteriormente nuovi “torrioni”. Siamo ritornati molte volte e in parecchi abbiamo aperto vie, arrampicato dal mattino alla sera. I1 giudizio di tutti è unanime: una bellissima palestra da sfruttare e da far conoscere. Finora abbiamo perlustrato e arrampicato solamente su otto torrioni. Ma almeno altrettanti sono ancora inesplorati, ragion per cui quel senso d’avventura e di e di novità sono alla mercé di tutti coloro che vogliono praticare un’arrampicata “di ricerca”.” Le esplorazioni di Pucci e compagni non si limitano a quelle rocce sopra descritte e poi battezzate “Palestra G.Comino” o “Nuova” ma proseguono anche più a monte in quella che verrà soprannominata “La palestra degli Astigiani” e sulla torre situata davanti alla palestra dei Distretti (Torre Cavarero) ma resteranno esplorazioni isolate o raramente riprese e oggi, nonostante siano presenti qua e là un certo numero di vie attrezzate, le rocce dei Distretti restano quelle più apprezzate e frequentate. Giungono i primi anni ’80 e frequento quasi quotidianamente da solo la palestra di Miroglio; gli spit non sono ancora arrivati e mentre sale il mio livello in arrampicata si innalza anche quello delle mie aperture e ripetizioni in free solo che trasferirò anche sulle pareti e nella nascente arrampicata sportiva. Con Federico Bausone frequentiamo il Verdon ed il Finalese: le cose stanno cambiando rapidamente e non basta più salire le vie con qualsiasi mezzo, bisogna salirle con un certo stile e cioè in libera, un concetto ora del tutto normale e con regole ben definite ma per nulla scontato all’epoca(sono passati trent’anni ma sembra davvero un secolo). Nel 1983 riesco, con le mitiche scarpette EB Maestria ai piedi e su vetusti chiodi normali come protezione, su “Arcadia”, il primo 7a di Miroglio e apro una decina di nuovi itinerari in free solo a vista. E poi… Nel 1985, arrivano anche a Miroglio i primi spit! Grazie ad un finanziamento del CAI Mondovì, le guide alpine Pucci Giusta e Sergio Rossi attrezzano a macchia di leopardo le classiche sui torrioni e qualche nuova linea come “Spazio zero” e il Tetto a Banana o “Bausomat”, forse ancora oggi il tiro più caratteristico di Miroglio, liberato da Federico Bausone nel 1987.

A questo punto sembra tutto finito e si prospetta forse un destino di abbandono a favore di nuove “palestre” ma Paolo Fenoglio si presenta l’anno dopo, nel 1986, e con trapano e generatore ed inizia ad attrezzare vie nuove e anche vie già salite con mezzi tradizionali dando nomi suoi di fantasia a tutte le rocce cui mette mano; si trattò forse di un’operazione un po’ arbitraria, dal momento che spesso attrezzava vie già salite in precedenza, ma fu anche un modo per vedere le cose ulteriormente sotto un’altra ottica. Personalmente sono d’accordo, qui a Miroglio, con la messa in sicurezza degli itinerari già esistenti ma credo che debba anche apparire ben chiaro che chi attrezza non è sempre, necessariamente, il primo salitore; infatti una via senza chiodi non è detto sia una via “vergine”. E’ su questa scia che, sul finire degli anni ’80, un appassionato del suo “giardino” e cioè il fossanese Igor Napoli ritorna a Miroglio in veste di “chiodatore”: inizia con “Apache” al Torrione E ed “Itaca nella Nebbia” al Torrione B e non si ferma più. Nel giro di 15 anni da solo o con vari compagni apre molti nuovi itinerari, valorizzando i Torrioni M, N, O, Q, R, S, T. L’ultimo atto è del 2008 quando con un contributo della CRC e del Comune di Frabosa, le guide alpine monregalesi Diego Dho e Matteo Casanova coadiuvati da Davide Gozzi compiono, da veri professionisti, un eccellente ed intelligente restyling delle vie esistenti creando anche qualche novità, omogeneizzando la chiodatura con materiali inox a norma e trasformando i Distretti in una falesia adatta all’arrampicata sportiva. Il passaggio e la fusione tra “vecchio” e “nuovo” sono ormai compiuti e certamente un altro Miroglio, meno romantico ma più sicuro e fruibile, è quello che si affaccia al nuovo millennio. La palestra dei Distretti mi sembra ora trasformata e “nuova” come vedo “nuovo” il modo con cui i giovani oggi praticano l’arrampicata: per molti di loro è un’attività certo intensa ma più ai margini della loro vita, forse anche perché ormai sdoganata come “sport di massa”, da consumare in qualche stagione, anche agonistica, a un livello più alto possibile per poi magari abbandonarla(che sia meglio così? che loro abbiano capito tutto e noi niente?M forse è solo cambiato il mondo…)per nuovi sport o per impegni successivi. Per noi(ma parlo soprattutto per me), giovani degli anni’80, l’arrampicata, passione e folgorazione insieme, era vissuta come una ”disciplina” e ci sembrava l’unica forma, alternativa e autentica, di vivere una vita vera ed interessante; forse con il sogno segreto di creare una nuova forma di crescita interiore, prima attraverso l’impegno fisico, andando alla ricerca dei nostri limiti, poi attraverso quello mentale, dilatando la nostra coscienza, nell’illusione di una maggiore conoscenza di noi stessi, dopo momenti, anche cercati, di rischio controllato. Tutto questo si consumava, giocoforza, in modo integralista, radicale, ossessivo, con una buona dose di accettazione del rischio e alternativo alla vita “normale” tanto che qualcuno ci definì ”parassiti sociali”(la cosa non mi turbò dal momento che ero studente…). Eravamo costantemente alla ricerca di un confronto: chi con sé stesso, chi con gli altri, ma sempre attraverso la “libera”, con i suoi gesti sempre uguali ma sempre diversi e in ogni sua declinazione, per sentirci più “liberi” da quell’omologazione che sembrava serpeggiasse avida di proseliti, sì proprio quella che cantavano i CCCP:”produci-consuma-crepa!”, e vivevamo sempre in attesa di un nostro, del tutto inutile ma nostro, ”Mercoledì da Leoni”. Il più delle volte, tutto questo “arrampicare” non portava da nessuna parte, se non ad un enorme ed edonistico auto–appagamento, ma diventava semmai un vero e proprio “modus vivendi” e una drogata, quotidiana e vorace fame di roccia(non c’erano i muri)da scalare ma anche da scoprire, avulsa dalla realtà e da ogni forma di impegno sociale; era però anche un mondo immensamente intrigante e creativo. Oggi, che mi sembra vagamente di aver trovato un equilibrio(sarà l’età…), devo riconoscere che proprio questo modo di vivere l’arrampicata come “disciplina”(condita da potenti dosi di endorfine e più vicina all’alpinismo)e non come lo stupendo “sport” che è diventata, pur con le sue nevrosi, a noi, ex giovani, ha cambiato radicalmente la vita e le sue scelte e devo ammettere che aver “potuto” procrastinare a lungo l’arrivo della cosiddetta “età adulta”, vivendo le scalate come l’unica ragione di vita, non mi trova per nulla pentito se, ancora adesso, non posso fare a meno di resistere al richiamo di una breve “free solo” che mi riporta così nel mio mondo, lontano dalla realtà.

Link ai PDF:

UNA STORIA COMUNE

RELAZIONE – I DISTRETTI DI MIROGLIO

DISTRETTI DI MIROGLIO – VIA PENOMBRA


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