Fin dalla metà degli anni settanta anche la Palestra di Miroglio , meglio conosciuta come la palestra dei Distretti , è stata , come molte altre in quel periodo , teatro della rivoluzione che ha animato il dibattito sull’evoluzione dell’arrampicata dall’inizio degli anni ’80 fino a giungere allo stratosferico livello raggiunto oggi. Senza addentrarmi nelle infinite diatribe tra cosa e’ bene fare o non fare per salire una montagna o una parete rocciosa dal punto di vista etico , vorrei raccontare , proprio con l’esempio di Miroglio , come nacque qui da noi il bouldering ovvero l’arte di scalare sui massi Ritengo che l’arrampicata sia una delle prime espressioni complesse nate dall’essere umano : uno schema motorio che , in un misto di forza e resistenza , mette in gioco anche tutte le altre qualità fisiche ma che risulta vano senza l’intuizione e l’intelligenza che servono per risolvere i problemi con il minor dispendio energetico possibile . Penso che arrampicare ci porti indietro , alle nostre origini , e , senza l’ausilio di mezzi artificiali particolari ( come nel bouldering ) , ci pone senza pietà di fronte a noi stessi e alle nostre fragilità ( in sostanza si sale o non si sale , senza possibilità di mediazione ) .
L’arrampicata , vissuta in ambiente naturale , può , a tratti , regalarci quel piacevole senso di distacco dall’oppressione di una vita scandita dalle regole del capitalismo vagheggiato prima dalla beat generation e poi dal movimento hippie ma naufragata , troppo spesso in quelle esperienze , nell’alcol e nei paradisi artificiali della droga . Proprio di origine americana , ed importata qui da noi (nonostante fosse ben noto il decennale approccio al bouldering nella foresta di Fontainebleau) , è quella sorta di rivoluzione che si propose agli occhi degli scalatori sul finire degli anni ’70 : meno sofferenza e più simbiosi con l’ambiente e il proprio io , un credo dell’arrampicata fatto di mero edonismo in un contesto di confronto diretto con il nostro limite psicofisico con solo mani e piedi a mediare il rapporto con la roccia , il tutto condito dall’uso delle leggere scarpette a suola liscia al posto dei pesanti scarponi e di un rapporto con la roccia fatto di piacere fisico del movimento piuttosto che di un conflitto con la parete fatto di sacrificio e sofferenza . Forte di questi ancora indecifrabili segnali di cambiamento vidi per la prima volta , era il 1980 , ( userò solo i nomi propri ) i ” locals ” di Miroglio Charlie , Elio e Igor che si muovevano sinuosi e seminudi con i muscoli in bella vista e con i primi sacchetti della magnesite ( carbonato di magnesio usato dai ginnasti per assorbire i sudore e migliorare la presa) auto prodotti . Mi accorsi subito , anche se ero un teenager alle prime armi , che portavano a Miroglio , tempio di un alpinismo classico ma ormai decadente , un vento nuovo e decisi di raccoglierlo e farlo mio . Parlavano di bella roccia , passaggi acrobatici e tentati fino allo sfinimento , allenamenti e trazioni alla sbarra e di un allora a me quasi sconosciuto Gian Carlo Grassi che proprio a Miroglio aveva aperto un difficile passaggio (ora peraltro stupidamente deturpato da una presa scavata ) e che era uno degli alfieri di questo nuovo modo di porsi nei confronti della roccia . Incontravo spesso ” i locals ” a Miroglio ma la svolta venne quando li vidi , nella primavera 1981 , imitando Grassi in Val di Susa ( intanto , affascinato dal suo nome e dalle sue poliedriche realizzazioni , avevo visitato i massi erratici da lui valorizzati ) , dipingere minuziosamente sulle rocce con minuscole frecce il segno del loro passaggio in un circuito di circa 40 passaggi e di conseguenza preparare una mappa che dava un nome colorito ad ogni salita ( ne ricordo alcuni : alito satanico , oceano di quiete , sogno di Gollum ) e ne dava una valutazione curiosa , AD , D , TD , cioè abbastanza difficile , difficile , troppo difficile e quindi di fatto , grande intuizione , una non – valutazione . Ma il colpo da maestri fu la creazione di un adesivo raffigurante il dito medio alzato come logo dei neonati ” Sassisti della Maudagna Valley ” , un evidente messaggio qualunquista che si ispirava di fatto a precedenti esperienze ma con chiari elementi di originalità .
Fui rapito e conquistato da questo nuovo modo di vedere le cose , che mi allontanava dalla mia visione un po’ confusa ma ancora prevalentemente classica , del quale sentivo irresistibile l’attrazione e che mi portò in breve a ripetere tutti i loro passaggi ad aprirne altri esplorando ogni angolo della palestra dei Distretti e a continuare altrove con quella pratica ( in primis in valle Ellero) : una nascente forma di bouldering , un piacere del gesto e una manifestazione di forza , che si esprimeva con una paradossale e apparente assenza di peso , che non avrei mai più abbandonato . Era consuetudine allora ritrovarci ad arrampicare slegati sui torrioni il sabato pomeriggio (uscite che ” bissavo ” regolarmente più volte in settimana) , chi dopo la scuola , chi dopo il lavoro , e praticare alla base delle vie e sui massi isolati questa , per noi nuova , forma di arrampicata e devo dire che , nonostante l’elevato rischio e nessuna protezione , non si verificò mai alcun incidente che avrebbe potuto essere , potenzialmente , anche molto grave . Le salite si svolgevano con la massima naturalezza e , nonostante l’altezza dei passaggi fosse spesso ragguardevole , tutto veniva prevalentemente basato sulla bellezza del passaggio o dei movimenti piuttosto che sulla precisa valutazione di difficoltà o pericolosità . Vorrei spendere ancora poche parole per dire che questa larvata forma di bouldering nata un po’ dappertutto in Italia ha sconvolto anche il modo di vedere la montagna e che grazie alla pratica su queste piccole rocce il livello si è potuto innalzare e dalle piccole ascensioni si è potuta applicare la stessa tecnica sulle grandi pareti ( come peraltro aveva già capito molti anni prima il grande Pierre Allain ) ridicolizzando gli orari medi sulle salite di stampo classico ma soprattutto avendo a disposizione una forza ed una tecnica ancora sconosciute , ma continuamente allenabili , per risolvere nuove salite sempre più difficili e spesso senza dover ricorrere all’impiego dell’arrampicata artificiale . Ormai resta poco dello spirito di quei tempi : le persone vi si sono allontanate per impegni personali , per dedicarsi ad altre attività sportive , per sopraggiunti limiti di età ma anche , credo , per una forma di standardizzazione della performance che esalta il livello ma che deprime un po’ la creatività portando invidie e divisioni e , a volte , senso di inadeguatezza di fronte alle difficoltà . Restano a Miroglio i passaggi di quell’epoca spensierata simbolo di un bouldering primitivo e spontaneo che ciascuno potrà percorrere per piacere personale o per storica curiosità valutando individualmente dove ci hanno portato nella loro evoluzione .
P.S. l’elenco dei massi di seguito presentato non è esaustivo e , insieme ai vecchi passaggi , ho inserito elementi di novità , a voi scoprire ciò che ho volutamente tralasciato tra le pieghe nascoste dei torrioni di Miroglio alla ricerca delle frecce sbiadite o scomparse . Ho voluto presentare lo sviluppo di una specie di circuito come eravamo soliti fare all’inizio degli anni ’80 quando inframezzavamo ai passaggi la salita in free solo dei vari torrioni come collegamento
N.B.Voglio ricordare a tutti i praticanti che nonostante i passaggi non siano di elevata difficoltà sono spesso di altezza considerevole , a volte esposti o con terreno sconnesso alla base e necessitano quindi sia di una certa padronanza del livello che di concentrazione per non incorrere in spiacevoli cadute che da alcune uscite sono assolutamente vietate . Per un primo approccio , può risultare utile uno spezzone di corda . Crash pad fortemente consigliato . I massi e le strutture sono numerati ma con pochi nomi che molti sono ormai persi nell’oblio
e le valutazioni sono da intendersi come gradi boulder .
Giovannino Massari